Quel giorno mi hanno rubato il pallone.

Quel giorno mi hanno rubato il pallone.

La primavera in Sardegna, nei primi anni 70, era già l’estate dei nostri tempi, rondini impazzite che sembravano essere loro stesse foglie in quegli alberi stracarichi del loro cinguettio. Un caldo dolce, color biondo, accarezzava le nostre magliette a maniche corte, durante le partite di calcio nel campetto, asfaltato, di pallacanestro, della scuola. Erano le elementari, il nero sotto i piedi ammoniva severamente ognuno di noi, minacciando ginocchia sbucciate qualora fossimo caduti in terra rovinosamente. Ma era un gioco, succedeva di rado e, tra noi, a quell’età, non si è mai troppo cattivi.
Paoletto era bravissimo, lo ho sempre ammirato, il più bravo giocatore di calcio della scuola, secondo me, un giorno gli fecero un cross dalla sinistra, la palla attraversò il portiere e tutta la porta nella sua lunghezza, il pallone, il mio, in discesa, arrivò ad un’altezza di massimo trenta centimetri da terra, Paoletto si tuffò, di testa, lui era bravissimo e, quasi come se avesse le ali delle rondini, colpì la palla di testa, indirizzandola in rete, per poi arrivare in terra leggerissimo come se avesse appena fatto una flessione, senza un graffio.
Nessuna rete fu spettacolare come quella in quell’anno passato al campetto di asfalto, i pali erano due pietre, nemmeno mi ricordo come facevamo per decidere se i tiri alti indirizzati in porta erano gol validi o meno.
Ero così contento, io, ero quello che portava il pallone, credo che quel bellissimo San Siro, in quel periodo pallone ufficiale per chiunque volesse giocare a calcio, me lo avessero regalato per natale. I natali in famiglia a casa in piazza Mazzotti erano carichi di cugini. Non sono mai stato abituato a chiedere, o meglio, dopo il primo, o il secondo no evitavo direttamente. Essere il più piccolo di tre fratelli mi ha dato il vantaggio di vedere in anticipo cosa sarebbe successo, facendomi evitare parecchie seccature inutili.
Andavo da solo al campetto, come anche a scuola ogni mattina, e andavo avanti e indietro sempre col mio pallone, quel giorno, a fine partita, ho preso la via di casa, c’era ancora tanta luce, non mi ricordo che qualcuno usasse orologi, ma tutti sapevamo a che ora rientrare a casa, una magia biologica credo. Da via Sardegna lascio la scuola e imbocco via Rolando in direzione dei giardini, quasi sempre di corsa, quella corsa spensierata, quasi a saltelli, quella corsa che solo i ragazzini conoscono. Poche le macchine per le strade ed io dal giorno in cui non mi avevano investito ho imparato ad ascoltare la strada con le orecchie, lo faccio ancora oggi, quando dalle sei alle sette del mattino faccio walking per le vie di Sassari, cammino a testa alta in mezzo alla strada, ascoltandola, come a sfidare tutti, anche i pensieri più scuri della mia infanzia, quei pensieri che ancora tornano e urlano e che io sento con le orecchie, ma io sono sempre pronto, anche per quelli.
Nei giardini l’autocarro carico di foglie e rami, frutto del lavoro dei giardinieri, era sempre in movimento, verde, imponente anche se io ero piccolo, alto, da rispettare.
Attraversavo correndo anche i giardini, alla sinistra della la prima fontana, quella che adesso non c’è più, e dove ho bevuto centinaia di volte quando mamma ci portava a giocare da piccolissimi. E poi giù, verso la quella di san Francesco, che beve ancora oggi con gli stessi piccioni di bronzo.
Esco dai giardini e imbocco Largo Porta Nuova, che ho scoperto da poco essere una delle poche porte di accesso alla Sassari antica e poi, sempre col mio pallone sotto il braccio, via Arcivescovado, di corsa, quanto correvo.
Facevo le curve delle vie di Sassari vecchia come fossi una moto, mi piegavo tantissimo, ma credo mi aiutasse il baricentro basso. Mentre correvo verso il Duomo di Sassari, la Cattedrale di San Nicola, in quella via deserta, all’altezza di Vicolo delle Canne, vedo due ragazzi camminare nel mio steso verso, decisi allora di rallentare, e sfoggiare il mio bellissimo San Siro, ero io, e quei due ragazzi dovevano saperlo, quello che portava il pallone. Smisi di correre e iniziai a camminare, palleggiando, che bel rumore faceva il pallone che rimbalzava, aveva una tonalità acuta caratteristica, e poi il mio aveva i rombi neri quasi consumati, era rarissimo il mio pallone, ed era mio. Non era mai stato necessario gonfiarlo al distributore, era perfetto, e mentre rimbalzava quei due ragazzi decisero che era così bello da cercare di rubarmelo. Considero Sassari tutt’ora una piccola città a misura di uomo, ma a ‘Sassari Vecchia’ era possibile incontrare qualche piccolo delinquente. Io venivo dalla bambagia, avevo da poco iniziato a scendere sotto casa a giocare, in quella piazza Mazzotti deserta in estate e in quel deserto io stavo con i più grandi, quelli che non giocavano già più. Ero il più piccolo.
Quei due ragazzi devono avermi detto di dargli il pallone, dico devono perché mi è bastato uno sguardo e il loro gesto, quello di avvicinarsi a me, per farmi stringere il pallone sotto il braccio e riprendere a correre, credo di non aver mai corso così veloce, col pallone, il mio, sotto il braccio. Ho fatto la curva che portava al duomo così veloce da sentire le scarpe stridere, e, appena ripreso l’assetto di corsa in rettilineo, ho continuato sempre più veloce. Li sentivo dietro me, pensavo che probabilmente loro, più veloci in quanto più grandi, mi avrebbero preso, ma pensavo correndo e pensavo che, oltre a prendermi il pallone, mi avrebbero anche picchiato, nessuno mi aveva mai picchiato, solo a casa tra fratelli ci picchiavamo.
In un istante arrivo alle scalinate del duomo, che mi avrebbero fatto deviare dalla mia traiettoria, ma il duomo ha anche due ingressi laterali, quei due ingressi si, erano sulla mia traiettoria, il mio pensiero fu immediato, se scarto verso sinistra e aggiro le scale allungo, e magari quei due passano per quei due ingressi, mi tagliano la strada, e riescono a rubarmi il pallone e a picchiarmi. Fu così che andai dritto per le scale tra le due cancellate, volando, senza mai guardarmi indietro, leggero, infilo via Duomo, sentivo le gambe dietro la schiena, le mie, arrivo in piazza Mazzotti che taglio in diagonale, ero bravissimo a calcolare la traiettoria più breve, lo faccio ancora oggi Finalmente il portone di casa, sempre aperto per via delle Assicurazioni Generali del primo piano, e l’ascensore, senza mai guardarmi indietro, l’ascensore era al piano terra, aperto, infilo due dita a premere i due pulsanti T e 6 e con l’altra mano premo il pulsante esterno, schizzo sotto la fotocellula e raggiungo nell’angolo dell’ascensore il mio pallone, le porte dell’ascensore compaiono dal nulla per incontrarsi e salvare il mio pallone e me, chiuse, sei piani, finalmente a casa.
Credo che quei due si siano fermati ancora prima del Duomo, ma non importa.
Quel giorno non mi hanno rubato il pallone

Cesare 2 luglio 2015

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